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Quando il mobbing diventa stalking

La Cassazione penale chiarisce che integra il delitto di atti persecutori (c.d. stalking) la condotta di mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente, preordinati alla sua mortificazione e all’isolamento nell’ambiente di lavoro.

Il caso riguarda la condanna del presidente di una società di servizi condannato per atti persecutori aggravati in quanto, da titolare di una posizione di supremazia nei confronti di dipendenti della società, svolgenti funzioni di ausiliari del traffico, aveva causato loro un duraturo e perdurante stato di ansia e di paura tramite reiterate minacce, anche di licenziamento, denigrazioni e ingiustificate e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare, così da costringere i lavoratori ad alterare le loro abitudini di vita.

Il datore di lavoro ha proposto ricorso per cassazione sostenendo, fra l’altro, che i dipendenti avessero assunto un particolare atteggiamento di assoluta ed illegittima resistenza alle trasformazioni produttive ed organizzative che la società stava attraversando, cosicché si era venuto a creare un conflitto di natura lavorativa derivante dalle molteplici direttive di lavoro disattese e dagli ordini di servizio ignorati dai lavoratori. Inoltre, il ricorrente lamentava che l’eventuale mobbing è comunque concetto non del tutto sovrapponibile al reato di atti persecutori (stalking), che richiede comportamenti fortemente invasivi della sfera privata, e osservava che i due fenomeni hanno finalità antitetiche poiché l’autore del delitto di atti persecutori mira ad instaurare un rapporto con la vittima, mentre il mobbing è finalizzato alla espulsione della vittima dal contesto lavorativo.

La Quinta Sezione della Cassazione penale, con sentenza n. 12827 del 5 aprile 2022, ha rigettato il ricorso, affermando che: «Deve in primo luogo osservarsi che […] integra il delitto di atti persecutori la condotta di mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro – che ben possono essere rappresentati dall’abuso del potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi – tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612-bis c.p. […]. Deve comunque sottolinearsi che anche nel caso di stalking “occupazionale” per la sussistenza del delitto art. 612-bis c.p., è sufficiente il dolo generico, con la conseguenza che è richiesta la mera volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, mentre non occorre che tali condotte siano dirette ad un fine specifico. […] Il ricorrente sostiene che egli ha agito allo scopo di rendere più efficiente la società (omissis) […] ma trattasi di circostanze prive di alcun rilievo, atteso che l’efficienza della società non può essere raggiunta attraverso la persecuzione e l’umiliazione dei dipendenti ed in genere mediante la commissione di delitti ai danni della persona, dovendo la tutela della persona e, nel caso specifico, del lavoratore in ogni caso prevalere sugli interessi economici […]».

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