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No all’estensione applicativa delle prescrizioni imposte dal medico competente

Affrontando il caso di un decesso di un lavoratore affetto da epilessia la Cassazione penale chiarisce che le prescrizioni imposte dal medico competente non possono essere oggetto di estensione applicativa.

Il caso riguarda la morte di un lavoratore di un’industria manifatturiera affetto da epilessia e, in conseguenza di ciò, giudicato dal medico competente inidoneo al lavoro in ambienti confinati o in solitario. Una mattina il lavoratore si era allontanato dalla sua postazione per recarsi in un’area di produzione dismessa, in pessime condizioni igieniche e microclimatiche, utilizzata da parte dei dipendenti quale zona franca per fumare, e lì era stato colpito da crisi epilettica. I colleghi, non vedendolo tornare, si misero alla sua ricerca, per poi trovarlo, solo dopo due ore, in stato di coma, cui pochi giorni dopo seguì il decesso. Un dirigente e due preposti dell’azienda, rinviati a giudizio per omicidio colposo, sono stati assolti sia in primo che in secondo grado a causa dell’abnormità della condotta del lavoratore che, consapevole della sua malattia, si era allontanato dalla sua postazione per recarsi in un luogo appartato, buio e molto difficile da raggiungere, senza avvertire nessuno e per ragioni ignote.

La parte civile ha proposto ricorso per cassazione contro l’assoluzione del dirigente e dei due preposti sostenendo che l’aver collocato il lavoratore in un’area che non consentiva un controllo costante sul medesimo, e il non aver informato i colleghi che operavano con lui affinché lo sorvegliassero adeguatamente, costituissero violazioni ai doveri di vigilanza connessi alle funzioni aziendali degli imputati, poiché l’area nella quale operava il lavoratore, per l’assenza di controlli era da ritenersi “ambiente confinato” e la prestazione del medesimo “lavoro in solitario”, non essendo prevista la sorveglianza attiva su di lui da parte di altri soggetti aziendali.

La Quarta Sezione della Cassazione penale, con sentenza n. 26151 del 9 luglio 2021, ha però confermato l’assoluzione, affermando che: «[…] le prescrizioni mediche sullo svolgimento della prestazione lavorativa, sono rivolte a rendere compatibile la condizione soggettiva del lavoratore con le esigenze produttive del datore di lavoro, al fine di consentire al primo di intraprendere e proseguire l’attività lavorativa, nonostante le deteriorate condizioni di salute, e dal secondo di limitare le modifiche dell’organizzazione del lavoro alle prescrizioni imposte, in modo da assicurare il diritto alla salute del lavoratore, ma anche l’utilità della prestazione lavorativa. Peraltro, iniziative che oltrepassino le prescrizioni imposte dal medico del lavoro costituiscono per il datore di lavoro l’assunzione di fatto di un rischio, generatore di responsabilità, laddove esse si rivelino dannose per la salute fisica o psichica del lavoratore. Dunque, non può ritenersi imposto al datore di lavoro alcun altro obbligo se non quelli prescritti, né è possibile ipotizzare alcuna estensione applicativa dei medesimi, se non a costo di far assumere al datore di lavoro responsabilità ulteriori non rientranti fra quelle espressamente previste». Inoltre, con particolare riferimento al presunto obbligo di informare i colleghi delle condizioni di salute del lavoratore per consentire una sorveglianza sullo stesso, sulla base della normativa in tema di privacy, in assenza di specifico consenso del lavoratore «nulla autorizza a diffondere notizie sulla salute del lavoratore ai colleghi che operino con il medesimo. Né, tantomeno, è possibile ipotizzare che la ‘sorveglianza’ su un collega rientri fra gli obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di lavoro, sicché non è possibile da parte del datore di lavoro neppure richiedere una simile prestazione». Infine, per quanto riguarda le prescrizioni impartite dal medico al datore di lavoro sulla conformazione dell’attività del lavoratore alla sua patologia, «la disposizione relativa all’ambiente ‘non confinato’ ed alla modalità non ‘in solitario’, sono rivolte -proprio tenendo conto della non esigibilità della sorveglianza continuativa del lavoratore da parte dei colleghi ed al divieto di rendere nota la patologia senza il consenso dell’interessato- a porre il lavoratore in una condizione di ‘visibilità’ da parte dei terzi, essendo ovvio che allorquando un collega di lavoro si sente male e perde i sensi, come accade nelle crisi epilettiche del tipo descritto, è immediato l’allarme di coloro che lavorano nelle vicinanze. Questa prescrizione imposta al datore di lavoro è, dunque, quella di apprestare una postazione lavorativa che consente di ‘favorire’ il soccorso, non certo quella di ‘sorvegliare continuativamente’ l’interessato, ponendogli accanto un ‘lavoratore sentinella’, che lo segua ovunque egli ritenga di recarsi, nel corso della giornata lavorativa».

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