Per affermare la responsabilità del datore di lavoro, in caso di infortunio subito da un lavoratore correttamente formato e informato, con violazione delle norme di prevenzione aziendale, è necessario verificare puntualmente l’eventuale instaurazione, nella concreta situazione, di una prassi aziendale di tolleranza delle condotte pericolose.
Un operaio specializzato di una cartiera ha subito un grave infortunio al braccio, a seguito di una manovra imprudente, consistente nello strappo manuale della carta fuoriuscita dalle guide, senza azionare il pulsante di arresto della macchina come previsto dalla procedura corretta. In primo grado il datore di lavoro è stato assolto dal reato di lesioni personali colpose, tenendo conto del fatto che il rischio era stato correttamente valutato e non erano emerse lacune nella vigilanza del dipendente. In appello, però, il datore di lavoro è stato condannato, avendo la Corte evidenziato l’esistenza di una prassi aziendale informale, contraria alle procedure, secondo la quale, nel caso di non corretto scorrimento della carta e nell’imminenza del passaggio della stessa attraverso i rulli, era prassi che la stessa venisse strappata senza bloccare la macchina. Secondo la Corte d’Appello, il datore di lavoro avrebbe dovuto fornire strumenti e procedure di sicurezza, comunicarle ai dipendenti ed esigerne il rispetto attraverso costanti verifiche. Invece l’imputato non aveva dimostrato l’esistenza di deleghe certe ed efficaci per garantire controlli e interventi volti ad eliminare prassi pericolose.
Il datore di lavoro ha quindi ricorso per Cassazione, sottolineando, tra l’altro, che il documento di valutazione dei rischi era idoneo e che era stata predisposta un’istruzione operativa per svolgere la manovra di sblocco carta in piena sicurezza, diffusa anche mediante l’apposizione di cartelli in corrispondenza della linea e conosciuta dai lavoratori. Il lavoratore infortunato avrebbe quindi scelto di non seguire la procedura prevista “per comodità”, cioè non per un interesse aziendale. Si trattava inoltre, da parete del lavoratore, di un gesto occasionale e anomalo, svolto rapidamente quando si poteva conseguire la certezza di non essere visti, e non di un comportamento conosciuto, tollerato o suggerito dai vertici aziendali. Infine non era possibile attribuire al datore di lavoro una responsabilità per omessa vigilanza senza considerare l’esperienza nel settore del lavoratore infortunato, adeguatamente formato ed informato, dal quale ci si poteva attendere solo il puntuale rispetto dell’idonea procedura.
La Quarta Sezione della Cassazione Penale, con la sentenza n. 37002 del 4 settembre 2019, ha accolto il ricorso del datore di lavoro, annullando senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato: la Corte d’Appello, infatti, “avrebbe dovuto verificare puntualmente l’eventuale instaurazione o meno, nella concreta situazione […], di una prassi aziendale contra legem di tolleranza di condotte pericolose, accertamento necessario nella fattispecie, in ossequio al consolidato principio giurisprudenziale, secondo cui in tema di prevenzione infortuni sul lavoro il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell’esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli; […]. A tali considerazioni, peraltro, va aggiunto che non è emerso che la procedura impropria seguita dal lavoratore determinasse un’accelerazione del processo di lavorazione e che rientrasse in una logica di profitto aziendale”.